Tutto inizia da uno zio, che oramai non c’è più, un uomo dolce, mite che è stato in un campo di concentramento; un uomo che non ha mai raccontato niente di quello che ha vissuto nel campo di prigionia, nemmeno una parola alla moglie, alla figlia ai nipoti: come se avesse cancellato il ricordo. Non ne parlava perché lui non c’era mai stato! Ma poi spuntano delle lettere scritte alla madre prevalentemente, da lui e da due suoi fratelli. Lettere che raccontano, con una calligrafia fittissima, dai tempi in cui erano nei battaglioni dalle parti di Mondovì fino alla deportazione in Germania per uno e in Russia per un altro (Russia da cui non fece mai ritorno). Lettere che raccontano cose semplici, come la necessità di fumare per stare meglio, la fame, la preoccupazione di rassicurare continuamente chi è a casa, la rassegnazione di non capire quanto durerà e quando si tornerà. Da queste lettere e soprattutto dall’idea che le prossime generazioni non potranno più incontrare chi c’era e ha vissuto questa cosa, che ora vediamo in televisione, e che si chiama guerra e potranno anche credere che sia solo un racconto, un’invenzione e che non sia successo veramente.
- Teatro: via Paggi 43 b
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