Una cosa che si nota, o si vive, guardando le fotografie di Vivian Maier, è il gioco pudico e sfacciato dell’identità: specchi usati come finestre trasparenti, rimbalzi tra “io” e “non-io”, ombre che annunciano, denunciano, ironizzano, esorcizzano l’assenza. Come ogni fotografo, ma molto di più, Vivian Maier non solo mostra il mondo, ma mostra il proprio guardare. Più che un gioco, è una danza di corpi e di sguardi che a tratti si fa vertiginosa, e pericolosa.
Sarebbe abbastanza: ma Patrizia Ercole e Silvestra Sbarbaro hanno aggiunto il loro sguardo, che è molto particolare. Ai modi estetici, psicologici, esistenziali, sociali, di guardare quelle immagini, hanno aggiunto uno sguardo drammaturgico. Oltre a entrare in quel gioco come nuovi soggetti, nuove danzatrici, creando un testo, per la stampa e per la voce, hanno dato una misura (provvisoria), una “durata”, una unità-di-discorso, una zona di senso, all’abisso seriale delle immagini. Mettendo in (un) teatro alcune di quelle immagini, e parlandone (non in didascalia, ma in controcanto) sono state, per l’austera e sfuggente straniera, amichevoli e ospitali.
Roberto Piumini