“Faustus” di Max Manfredi condensa, e finalmente realizza, un lavoro almeno trentennale di ricerca e di scrittura, del tutto solitario, finora, e quasi segreto, dell’autore; integrando (ed anche disintegrando) i testi di Marlowe e dell’edizione tedesca di Spies (uno dei primi libri stampati in Europa) con una partitura elastica fatta di suoni, di musiche rigorosamente non originali (dalla tradizione rinascimentale. a Bach e Fauré, a Roberta Flack e Silvia Salemi), di versi poetici, di calembour teatrali, di luci povere-ma-belle.
Il tema di Faustus viene ridotto al minimo, cioè alla lettura scenica del testo marlowiano, purgato degli intermezzi spuri e comici, ridotto a un dialogo fra l’uomo – che non veleva essere un uomo – e il dèmone – che non vorrebbe essere un dèmone (con figure disturbanti), che in certo modo ricorda il teatro dell’assurdo, ma soprattutto non fa che sottolineare e ribadire l’assurdo del teatro, e la sua necessità intransitiva e musicale (“non fui io a (…) fare musica col mio Mefistofele”)?
Anche un omaggio ruvido, accorato, smaliziato, al dèmone (diavolo o daimon che sia ) inteso come “malattia infantile” – o almeno adolescenziale – del percorso artistico.
Faustus, Mefistofele, Elena, Old Man – il vecchio di buona volontà che cerca di convertire Faustus (come si converte un linguaggio in un altro) , più un Wagner (il nome dell’allievo di Faustus in Marlowe) moltiplicato almeno per tre, a “far funzione” di scolari, dèmoni, paradiso e tutto quel che ci vuole e manca. Ecco i caratteri grafici, ecco le figure della scena.